Commenti al celebre testo di S. Freud (1912) sulla tecnica psicoanalitica.

Dott. Marco Conci

Freud S. (1912). Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico. In Opere vol. VI. Bollati Boringhieri, Torino, 1967-1980.

Le regole tecniche che mi accingo a proporre sono state ricavate dalla mia personale pluriennale esperienza, dopo che risultati sfavorevoli mi hanno indotto ad abbandonare altri metodi che avevo intrapreso. Si noterà facilmente che esse (o perlomeno molte di esse) si riassumono in un’unica prescrizione. Mi auguro che l’osservanza di tali regole risparmierà ai medici impegnati nell’analisi molta inutile fatica, mettendoli in guardia da alcuni fraintendimenti; devo tuttavia dire esplicitamente che questa tecnica si è rivelata l’unica adatta alla mia individualità e non pretendo di escludere che una personalità medica di tutt’altra natura possa essere spinta a preferire un atteggiamento diverso di fronte al malato e al compito che deve affrontare.

a) Il primo compito dinanzi al quale si vede posto l’analista che ha in trattamento più di un malato al giorno gli apparirà anche il più difficile. Esso consiste nel tenere a mente tutti gli innumerevoli nomi, date, dettagli di ricordi, associazioni e produzioni patologiche che un paziente comunica nel corso di mesi e anni di trattamento, non confondendo questo materiale con altro analogo proveniente da altri pazienti analizzati nello stesso tempo o in precedenza. Se poi si è costretti ad analizzare sei, otto 0 anche più malati al giorno, una prestazione mnemonica che riesca a tanto desterà negli osservatori esterni incredulità, meraviglia o addirittura commiserazione. In ogni caso nascerà la curiosità di conoscere la tecnica che consente di padroneggiare un materiale cosi vasto e ci si attenderà ch’essa si avvalga di particolari espedienti.

Questa tecnica è invece molto semplice. Essa respinge, come vedremo, tutti gli espedienti, persino quello di redigere appunti, e consiste semplicemente nel non voler prender nota di nulla in particolare e nel porgere a tutto ciò che ci capita di ascoltare la medesima “attenzione fluttuante” (ho già avuto occasione di definirla cosi una volta). Si risparmia in questo modo uno sforzo di attenzione nel quale comunque non si potrebbe perseverare quotidianamente per molte ore consecutive, e si evita un pencolo che è inscindibile dall’applicazione dell’attenzione deliberata. Infatti, non appena ci si propone di mantener tesa la propria attenzione a un determinato livello, si comincia anche a operare una selezione del materiale offerto; se ci si concentra con particolare intensità su un brano, se ne trascura in compenso un altro, e si seguono nella scelta le proprie aspettative o le proprie inclinazioni. Ma appunto questo non si deve fare; seguendo nella scelta le proprie aspettative, si corre il rischio di non trovare mai niente che non si sappia già; seguendo le proprie inclinazioni, si falserà certamente ciò che potrebbe essere oggetto di percezione. Non bisogna dimenticare che accade perlopiù di ascoltare cose il cui significato viene riconosciuto soltanto in seguito.

Come si vede, la norma di prender nota di ogni cosa in modo uniforme, è il corrispettivo necessario di quanto si pretende dall’analiz-zato, e cioè che racconti senza sottoporre a critica e selezione tutto ciò che gli passa per il capo. Se il medico si comporta in un modo diverso annulla in gran parte il beneficio che risulta dall’osservanza della “regola psicoanalitica fondamentale” da parte del paziente. La regola per il medico può essere espressa nel modo seguente: Si tenga lontano dalla propria attenzione qualsiasi influsso della coscienza e ci si abbandoni completamente alla propria “memoria inconscia”, oppure, in termini puramente tecnici: “Si stia ad ascoltare e non ci si preoccupi di tenere a mente alcunché.”
Ciò che si ottiene in questo modo sarà sufficiente per tutte le esigenze durante il trattamento. Quelle componenti del materiale che già si inscrivono in un contesto saranno disponibili per il medico anche in modo cosciente; il resto, ancora sconnesso e disposto in caotica confusione, sembra in un primo tempo sommerso, ma affiora prontamente alla memoria appena l’analizzato produce qualcosa di nuovo con cui tale materiale possa essere collegato e in cui possa prolungarsi. Possiamo allora accogliere con un sorriso l’immeritato elogio che l’analizzato ci rivolge per nostra “memoria particolarmente buona”, quando riproduciamo dopo molto tempo un dettaglio che probabilmente si sarebbe sottratto alla nostra consapevole intenzione di tenerlo a mente.

In questo processo del ricordare si verificano errori soltanto in momenti e in punti nei quali si è disturbati dal riferimento personale, vale a dire quando si rimane a un livello di gran lunga inferiore a quello dell’analista ideale. Confusioni con il materiale prodotto da altri pazienti si verificano molto raramente. Ove ci sia discussione con l’analizzato sul fatto ch’egli abbia comunicato o meno un certo particolare o su come l’abbia fatto, il medico ha quasi sempre ragione. (Spesso l’analizzato afferma di aver già fatto in precedenza una certa comunicazione, mentre gli si può assicurare con tranquilla certezza ch’essa ha luogo ora per la prima volta. Risulta poi che l’analizzato aveva avuto precedentemente l’intenzione di effettuare questa comunicazione, ma ne era stato impedito da una resistenza ancora attiva. Il ricordo di questa intenzione è per lui inseparabile dal ricordo dell’attuazione.)

b) Non posso raccomandare di prendere molti appunti durante le sedute con l’analizzato, di redigere protocolli e cosi via. A prescindere dall’impressione sfavorevole che ciò provoca in taluni pazienti, valgono contro questo modo di procedere gli stessi punti di vista che abbiamo avanzato a proposito dell’attenzione. Mentre si trascrive o si stenografa, si opera necessariamente una deleteria selezione del materiale e si tiene impegnata una parte della propria attività mentale che dovrebbe essere meglio utilizzata nell’interpretazione di ciò che si è ascoltato. Senza tema di obiezioni si può fare eccezione a questa regola in caso di date, testi di sogni o singoli avvenimenti degni di nota, facilmente isolabili dal loro contesto e che si prestano a un impiego indipendente come esempi. Quanto a me, non ho l’abitudine di fare nemmeno questo. Gli esempi li trascrivo a memoria la sera, quando ho finito il mio lavoro; i testi onirici ai quali annetto importanza, me li faccio ripetere dal paziente dopo il racconto del sogno, in modo da poterli fissare nella mente.

e) Prendere appunti durante la seduta con il paziente potrebbe essere giustificato dal proposito di fare del caso trattato oggetto di una pubblicazione scientifica. È un’esigenza che in linea di principio non si può negare. Ma non bisogna dimenticare che i resoconti analitici esatti di una storia clinica sono d’importanza minore di quanto ci si potrebbe aspettare. A stretto rigore, essi possiedono quell’apparente precisione di cui la psichiatria “moderna” ci mette a disposizione alcuni esempi clamorosi; ma essi di solito affaticano il lettore e comunque non sono in grado di sostituirsi a una sua partecipazione reale all’analisi. In generale abbiamo sperimentato che il lettore, quando vuol credere all’analista, gli concede credito anche per quel briciolo di elaborazione cui ha sottoposto il suo materiale; se egli invece non vuol prendere sul serio né l’analisi né l’analista, non tiene conto neppure dei fedeli protocolli del trattamento. Non pare questa la via per rimediare alla mancanza di evidenza che si riscontra nelle descrizioni psicoanalitiche.

d) È invero uno dei titoli di gloria del lavoro analitico che in esso indagine e trattamento coincidano; ma la tecnica che serve alla prima si contrappone, a partire da un certo punto, al secondo. Non è bene elaborare scientificamente un caso fintantoché il suo trattamento non è ancora concluso, comporne la struttura, volerne prevedere il decorso, compiere periodicamente delle rilevazioni sulla situazione, come sarebbe nell’interesse scientifico. Nei casi che vengono destinati fin dall’inizio all’utilizzazione scientifica e vengono curati secondo le esigenze di questa, il risultato è compromesso; la riuscita migliore si ha per contro nei casi in cui si procede senza intenzione alcuna, lasciandosi sorprendere ad ogni svolta, affrontando ciò che accade via via con mente sgombra e senza preconcetti. Il comportamento giusto da parte dell’analista consisterà nell’oscillare, secondo la necessità, da un atteggiamento psichico a un altro, nel non indulgere a speculazioni e a elucubrazioni fintantoché analizza e nel sottoporre al lavoro intellettuale di sintesi il materiale ricavato soltanto dopo che l’analisi è conclusa. La distinzione fra le due impostazioni non avrebbe senso se fossimo già in possesso di tutte le cognizioni, o perlomeno di quelle essenziali, sulla psicologia dell’inconscio e sulla struttura delle nevrosi, cognizioni che possiamo ricavare dal lavoro psicoanalitico. Ma oggi siamo ancora molto lontani da questa meta e non dobbiamo precluderci le vie che ci consentano di sottoporre a verifica quanto è stato sinora scoperto e di aggiungervi del nuovo.

e) Non raccomanderò mai con troppa insistenza ai colleghi di prendersi a modello durante il trattamento psicoanalitico il chirurgo, il quale mette da parte tutti i suoi affetti e persino la sua umana pietà nell’imporre alle proprie forze intellettuali un’unica meta: eseguire l’operazione nel modo più corretto possibile. Nelle attuali condizioni il sentimento più pericoloso per lo psicoanalista è l’ambizione terapeutica di riuscire, con il suo strumento nuovo e cosi aspramente contestato, a fare qualche cosa che possa avere un effetto persuasivo su altre persone. In questo modo non solo si pone in uno stato d’animo sfavorevole per il lavoro, ma si espone anche, indifeso, a determinate resistenze da parte del paziente, la cui guarigione dipende com’è noto innanzitutto dal suo modo di agire e reagire rispetto alla cura. La giustificazione di tale freddezza emotiva che si richiede all’analista riposa sul fatto che essa crea le condizioni più vantaggiose per entrambe le parti: per il medico l’auspicabile salvaguardia della propria vita affettiva, per il malato il massimo d’aiuto che siamo in grado oggi di dargli. Un chirurgo del passato aveva preso per suo motto le parole: Je le pansai, Dieu le guérit. L’analista dovrebbe accontentarsi di qualcosa di simile.

f) È facile indovinare verso quale meta convergano le varie regole che ho esposto. Tutte tendono a creare per il medico il corrispettivo della “regola psicoanalitica fondamentale” enunciata per l’analizzato. Come l’analizzato deve comunicare tutto ciò che riesce a cogliere mediante l’autosservazione a prescindere da ogni obiezione logica e affettiva che intendesse indurlo a operare una selezione, cosi il medico deve mettersi in condizione di utilizzare tutto ciò che gli viene comunicato ai fini dell’interpretazione e del riconoscimento del materiale inconscio celato, senza sostituire alla rinuncia di scelta da parte del malato una propria censura; espresso in una formula: egli deve rivolgere il proprio inconscio come un organo ricevente verso l’inconscio del malato che trasmette; deve disporsi rispetto all’analizzato come il ricevitore del telefono rispetto al microfono trasmittente. Come il ricevitore ritrasforma in onde sonore le oscillazioni elettriche della linea telefonica che erano state prodotte da onde sonore, cosi l’inconscio del medico è capace di ristabilire a partire dai derivati dell’inconscio che gli sono comunicati, questo stesso inconscio che ha determinato le associazioni del malato.

Ma se il medico dev’essere in grado di servirsi in questo modo del suo inconscio come di uno strumento per l’analisi, egli stesso deve soddisfare in ampia misura una condizione psicologica. Non deve tollerare in sé stesso resistenza alcuna che allontani dalla sua coscienza ciò che è stato riconosciuto dal suo inconscio; egli introdurrebbe altrimenti nell’analisi una nuova specie di scelta e di deformazione, che sarebbe di gran lunga più nociva di quella provocata dalla tensione della sua attenzione cosciente. Non basta a questo fine ch’egli stesso sia una persona pressappoco normale; piuttosto è lecito esigere ch’egli si sia sottoposto a una purificazione psicoanalitica e abbia acquisito nozione di quei complessi personali che sarebbero atti a disturbarlo nella comprensione di quanto gli viene offerto dall’analizzato. Non si può ragionevolmente dubitare dell’effetto squalificante di simili deficienze personali; ogni rimozione non risolta nel medico corrisponde, secondo un’indovinata espressione di Wilhelm Stekel, a una “macchia cieca” nella sua percezione analitica.

Anni fa, alla domanda come si potesse diventare analista risposi: “Attraverso l’analisi dei propri sogni.” Certo, questa preparazione è sufficiente per molte persone, ma non per tutte quelle che vorrebbero imparare l’analisi. E non tutte riescono a interpretare i propri sogni senza l’aiuto di altri. Tra i molti meriti della scuola analitica zurighese annovero quello di aver posto l’accento su tale necessità fissando l’obbligo per chi voglia compiere analisi su altri di sottoporsi preliminarmente a un’analisi presso un esperto. Se si vuol fare sul serio questo lavoro bisogna scegliere questa via, che promette più di un vantaggio; il sacrificio che comporta l’aprirsi a un estraneo senza esservi indotto da malattia, viene ampiamente ricompensato. Non solo si realizzerà in tempo molto più breve e con minore dispendio affettivo l’intento di conoscere ciò che è celato della propria persona, ma si ricaveranno anche impressioni e convincimenti su sé stessi che sarebbe vano sperare dallo studio dei libri e dall’ascolto di conferenze. Ne è da sottovalutare infine il beneficio derivante dal durevole rapporto psichico che si stabilisce di solito tra l’analizzato e il suo iniziatore.
Siffatta analisi di una persona praticamente sana rimarrà, com’è naturale, inconclusa. Chi saprà apprezzare l’alto valore della conoscenza di sé e del rafforzamento dell’autocontrollo che da essa si ottiene, proseguirà poi l’indagine analitica della propria persona sotto forma di autoanalisi e si rassegnerà di buon grado al fatto di doversi aspettare sempre qualcosa di nuovo sia dentro che fuori di sé. Ma chi come analista abbia disdegnato la precauzione dell’analisi personale, non solo verrà punito con l’incapacità di imparare oltre un certo limite dai suoi malati, ma cadrà in un pericolo anche più serio, che può diventare rischioso per gli altri. Egli cadrà facilmente nella tentazione di proiettare nella scienza, sotto forma di teoria universalmente valida, quanto egli, in un’opaca autopcrcezione, riconosce delle peculiarità della propria persona; così facendo getterà discredito sul metodo psicoanalitico e porterà fuori strada gli inesperti.

g) Aggiungo ora alcune altre regole che fungeranno da transizione dall’atteggiamento del medico al trattamento del paziente.
È certo seducente per il giovane e fervido psicoanalista impegnare molta parte della propria individualità per trascinare il paziente con sé innalzandolo con impeto oltre i limiti della sua ristretta personalità. Si dovrebbe pensare che sia senz’altro ammesso, anzi opportuno per il superamento delle resistenze esistenti nel malato, che il medico gli offra la possibilità, facendogli delle confidenze sulla propria vita, di gettare uno sguardo sui difetti e i conflitti psichici di cui egli pure soffre ponendolo cosi in condizioni di parità. Una fiducia infatti vale l’altra e chi esige intimità da qualcuno deve pure dimostrargliene a sua volta.

Nel rapporto psicoanalitico però, parecchie cose si svolgono diversamente da come sarebbe lecito attendersi in base ai presupposti della psicologia della coscienza. L’esperienza non depone a favore della validità di codesta tecnica affettiva. Né è difficile riconoscere che con essa si abbandona il terreno psicoanalitico e ci si avvicina ai trattamenti suggestivi. Si potrebbe ottenere che il paziente comunichi prima e più facilmente ciò di cui è consapevole e che per resistenze convenzionali si tratterrebbe dal dire ancora per un po’. Ma questa tecnica non serve affatto alla scoperta di ciò che è inconscio per il malato, non fa che renderlo ancor più incapace di superare resistenze più profonde e, in casi più gravi, porta regolarmente al fallimento suscitando la sua insaziabilità; il malato rovescerebbe volentieri la situazione ritenendo l’analisi del medico più interessante della propria. Anche la soluzione del rapporto di traslazione, uno dei compiti principali della cura, è resa più difficile da un atteggiamento di intimità da parte del medico, per cui l’eventuale beneficio iniziale si traduce in definitiva in un danno. Non esito insomma a respingere questa tecnica definendola scorretta. Il medico dev’essere opaco per l’analizzato e, come una lastra di specchio, mostrargli soltanto ciò che gli viene mostrato. In definitiva non c’è nulla da obiettare se uno psicoterapeuta combina un certo brano di analisi con una dose d’influsso suggestivo, per ottenere in un tempo più breve risultati visibili, come si rende necessario, per esempio, negli istituti psichiatrici; ma è lecito pretendere ch’egli non abbia alcun dubbio in merito a quel che viene facendo e sappia che il suo metodo non è quello della vera psicoanalisi.

h) Un’altra tentazione emerge dall’attività educativa che nel trattamento psicoanalitico spetta al medico senza ch’egli se la proponga in modo specifico. Essendosi risolte alcune inibizioni evolutive, va da sé che il medico si trovi nella condizione di indicare nuove mete alle tendenze divenute libere. Egli è senza dubbio animato da comprensibile ambizione, se si sforza di rendere il paziente, per la cui liberazione dalla nevrosi ha speso tanta fatica, una persona particolarmente degna, e se prescrive elevate mete ai suoi desideri. Ma anche in questo caso il medico dovrebbe sapersi dominare e lasciarsi guidare non tanto dai propri desideri quanto dalle capacità dell’analizzato. Non tutti i nevrotici hanno un grande talento per la sublimazione; per molti di essi si può supporre che non si sarebbero ammalati affatto se avessero posseduto l’arte di sublimare le loro pulsioni. Se li spingiamo oltremisura verso la sublimazione e tronchiamo loro i soddisfacimenti pulsionali più immediati e più facili, rendiamo loro la vita ancora più difficile di quanto già non la avvertano per conto proprio. Come medici dobbiamo essere innanzitutto tolleranti verso la debolezza del malato, dobbiamo accontentarci di aver recuperato una parziale capacità di lavoro e di godimento anche in una persona non eccelsa. L’ambizione educativa è infruttuosa quanto l’ambizione terapeutica. Dobbiamo d’altra parte tener conto che molte persone si sono ammalate proprio nel tentativo di sublimare le loro pulsioni oltre la misura consentita dalla loro organizzazione, mentre in coloro che hanno capacità di sublimazione questo processo suole compiersi da sé, appena le loro inibizioni siano state superate attraverso l’analisi. Penso dunque che lo sforzo di utilizzare regolarmente il trattamento analitico per la sublimazione delle pulsioni, pur essendo senza dubbio lodevole in sé, non è però certamente raccomandabile in tutti i casi.

i) Entro quali limiti si deve ricorrere alla collaborazione intellettuale dell’analizzato nel trattamento? È difficile fare in proposito asserzioni valide in generale: è decisiva in primo luogo la personalità del paziente. Ma in ogni caso occorre al riguardo prudenza e capacità di autolimitarsi. Non è giusto porre dei compiti all’analizzato, dirgli di raccogliere i suoi ricordi, di riflettere su un determinato periodo della sua vita, e cosi via. Deve imparare innanzitutto — e non è facile per nessuno ammettere una cosa del genere — che attraverso un’attività mentale di tipo riflessivo, attraverso uno sforzo di volontà e di attenzione, non viene risolto nessuno degli enigmi della nevrosi; soltanto attraverso il paziente esercizio della regola psicoanalitica, che impone di eliminare la critica rivolta all’inconscio e alle sue propaggini si ottiene un risultato. Si dovrebbe insistere sull’inesorabilità di questa regola in modo particolare con quei malati che durante il trattamento amano sconfinare nella discussione intellettuale, che quindi riflettono molto e spesso con grande sagacia sul loro stato e in tal modo riescono a evitare di fare qualcosa per dominarlo. Per questa ragione non ricorro volentieri con i miei pazienti nemmeno alla lettura di scritti analitici; pretendo che imparino sulla propria persona assicurandoli che ne trarranno una conoscenza più ricca e valida di quella che potrebbero ricavare dall’intera letteratura psicoanalitica. Riconosco tuttavia che in un istituto psichiatrico può risultare molto utile servirsi della lettura per la preparazione dei pazienti da analizzare e per la creazione di un’atmosfera favorevole all’influsso terapeutico.
Vorrei soprattutto mettere in guardia contro il tentativo di ottenere consenso e appoggio da parte di genitori o parenti, dando loro da leggere un’opera — introduttiva o più approfondita — della nostra letteratura. Il più delle volte questo passo, fatto a fin di bene, è sufficiente a far scoppiare prima del tempo l’opposizione naturale e prima o poi inevitabile dei parenti al trattamento psicoanalitico di un loro congiunto, con il risultato che la cura non viene neppure iniziata.
Mi sia consentito l’augurio che, attraverso l’ampliarsi delle loro esperienze, gli psicoanalisti raggiungano ben presto quella concordanza di vedute sui problemi della tecnica psicoanalitica che consentirà loro di affrontare il trattamento dei pazienti nevrotici nella maniera più efficace. Per ciò che si riferisce al trattamento dei “parenti” confesso la mia totale perplessità e ripongo in generale scarsa fiducia in un loro trattamento individuale.