Il Mito

Padri a distanza: possibili supporti tratto da Paternità e padri. Tra regole e affetti (Editore Franco Angeli).

Dott. Giuseppe Ferrari

 

“C’era una volta…” è così che mi viene da iniziare l’argomentare su una tematica sicuramente molto complessa e variegata quale è quella che vado ad affrontare. Per cercare di definire il concetto di “padri a distanza” e valutare i “possibili supporti” dal punto di vista psicoanalitico voglio partite dal mito, anzi da quello che voglio definire protomito.

All’inizio fu Voragine, che i Greci chiamarono Chaos, un vuoto, un vuoto oscuro, dove nulla può essere distinto; si tratta di un punto di caduta, vertigine, confusione, un precipizio senza fine, senza fondo. Voragine ghermisce con immense fauci in cui tutto può essere ingoiato e confuso, è quindi una sorta di abisso cieco, notturno, sconfinato.

Dal grembo di Voragine sorse la Terra (Gaia per i Greci). La terra possiede una forma distinta, chiara, precisa e si oppone all’indistinto Chaos con nettezza, compattezza, stabilità. Gaia è in pratica il suolo su cui gli dèi, uomini e animali camminano con sicurezza; è il pavimento del mondo.

Dopo Chaos e Terra appare per terzo quello che i greci chiamarono Eros. Questo Eros primordiale (che non è maschile né femminile) non è però lo stesso che comparirà successivamente, quando ci saranno gli uomini e le donne. Da quel momento in poi si tratterà di accoppiare sessi opposti, incontro che implica necessariamente un desiderio reciproco, una sorta di consenso.

Chaos è dunque un sostantivo neutro e non maschile; Gaia, la Terra è madre e quindi evidentemente femminile. Ma chi può amare al di fuori di sé, visto che è sola con Chaos?
Il primo Eros esprime l’energia dell’universo; così come la Terra è sorta da Chaos/Voragine, dalla Terra scaturirà ciò che essa contiene nelle profondità.

La terra partorisce dapprima Ouranos (Cielo), poi Pontos (flutto marino, maschile). Terra li concepisce senza unirsi a nessuno, solo attraverso la sua forza interiore e nel momento in cui la libera diventa il suo doppio ed il suo contrario. Quando Terra partorisce Ponto, il figlio la completa insinuandosi al suo interno e la delimita sotto forma di vaste distese liquide.

Il mondo parte quindi da tre entità primordiali Chaos, Gaia, Eros a cui si aggiungono Ouranos e Pontos.
La prima storia è quella del Cielo (Ouranos), partorito da Gaia e su di lei è coricato, disteso e ricopre completamente la Terra. Ouranos è il corrispondente esatto di Terra, la sua fotocopia, il suo doppio simmetrico, ci troviamo di fronte ad una coppia di opposti: un maschio e una femmina. Quando compare Urano, Eros gioca un ruolo diverso è attraverso il suo intervento che si determina la congiunzione e la nascita di esseri diversi da entrambi. Urano non cessa mai di disseminarsi nel grembo di Gaia per cui si trova a partorire in continuazione, tanto che non riesce ad uscire dal suo grembo e deve restare lì dove Urano l’ha concepita.

Non si crea mai uno spazio tale da consentire ai figli, i Titani, di uscire alla luce e condurre una vita autonoma. Non possono assumere una forma propria, né essere individui in quanto vengono continuamente ricacciati nel grembo di Gaia. Non esiste la luce in quanto Urano, stendendosi su Gaia, mantiene il buio perpetuo.

Gaia è compressa, soffoca e si arrabbia, si rivolge ai titani sollecitandoli a ribellarsi al padre. Hanno tutti paura, solo Crono, l’ultimogenito, accetta di aiutare Gaia a liberarsi di Urano; in pratica di misurasi col padre. Gaia concepisce un piano astuto, fabbrica al proprio interno un falcetto metallico, lo mette in mano a Crono, che si pone in agguato proprio là dove Urano si congiunge a Gaia e, afferrati i genitali del padre, li taglia in un sol colpo e poi getta via il membro in mare (la schiuma di sperma, mescolata ai flutti del mare genera Afrodite). Urano lancia un grido di dolore e si alza da Gaia rimanendo sospeso (il Cielo). Crono separa così la Terra dal cielo e crea uno spazio libero.

A questo punto lo spazio è aperto, il tempo scorre, i Titani, maschi e femmine sono in alto e comandati da Crono, dio crudele ed astuto. Crono sposa Rea, la sorella, (Rea e Gaia sono madre e figlia e molto simili tra loro). Crono è un dio di astuzia, di menzogna e di doppiezza e, pur di non perdere il potere, non si fida dei suoi figli. Sta attento soprattutto da quando Gaia che, come madre di tutte le divinità primitive, è dentro ad ogni segreto del tempo, prevede l’avvenire e avvisa il figlio del rischio che corre: cadere vittima, a sua volta, di uno dei suoi figli. Crono, al fine di impedire ciò, ogni volta che ha un figlio, lo inghiotte, lo divora e lo ricaccia nel proprio ventre.

L’unico che sfugge a questo destino, per volontà di Rea aiutata da Gaia, nasconde l’ultimo nato, Zeus, finché, con l’astuzia fa somministrare a Crono da Rea un farmaco emetico che gli fa vomitare tutti i figli, replicando, a suo modo la nascita di tutti i figli che Rea aveva partorito.

MATRICENTRISMO E PATRICENTRISMO J.J.Bachofen(1) (“) pubblicò nel 1861 “Il diritto materno”, raccolta enciclopedica di tantissimo materiale documentale (mitologia, letteratura, filologia, archeologia, etnografia) che vuol dimostrare che il “Diritto Materno” avrebbe universalmente preceduto il “Diritto Paterno” e che il declino del primo avviene con l’affermarsi del secondo. Erich Fromm accoglie le teorie mitologiche di Bachofen per proporre un mito di Edipo diverso da quello che ispirò Freud. Fromm rivede anche la teoria freudiana della sessualità, che ha avuto il merito di sfidare la mentalità vittoriana della sua epoca e la genialità di intuire una sessualità infantile e di prendere per la prima volta “sul serio il bambino e ciò che gli accadeva”.
Il fatto che esista una sessualità infantile non comporta che l’attaccamento del bambino alla madre sia di natura essenzialmente sessuale: il bambino è completamente indifeso e bisognoso di tutto e la dipendenza dalla figura materna esprime il desiderio di protezione e sicurezza, l’aspirazione ad una situazione paradisiaca di soddisfacimento e amore.
Per quanto riguarda l’organizzazione sessuale infantile, essa non dipende dalla libido investita nelle diverse zone erogene, ma deriva

Il matriarcato”. Ricerca sulla ginecocrazia nel mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici, 2 voll., a cura di Giulio Schiavoni, Giulio Einaudi editore, Torino 1988.

dall’atteggiamento della madre, o della famiglia, che valorizza questa o quella parte del corpo.
Fromm(2) (E. Fromm L’arte di Amare, Mondadori 1995) scompone il complesso edipico freudiano in due parti: l’attaccamento del figlio alla madre e il conflitto tra padre e figlio. Il figlio desidera la madre, ma in termini non essenzialmente sessuali, bensì per i suoi bisogni di sicurezza, protezione, affetto.

“La madre ama il bambino perché è la sua creatura e non perché abbia fatto qualche cosa per meritarselo […] La madre è l’ origine della nostra vita; è natura, anima, oceano […]L’ amore della madre è incondizionato, perché quello è il suo bambino. […] Il padre è colui che insegna al bambino, che gli mostra la strada del mondo. […] L’ amore paterno è un amore condizionato. Il suo principio è: io ti amo perché tu soddisfi le mie aspirazione, perché fai il tuo dovere, perché sei come me.”[ L’ arte di amare ].

Il rapporto con il padre è meno intenso, perché la sua figura non è chiamata al ruolo della protezione totale e avviluppante come continuazione del legame con la natura, ma richiede sottomissione, obbedienza e merito secondo la legge e il principio di gerarchia socialmente fondati, quindi l’amore del padre è condizionato e prevedibile e si può ottenere facendo ciò che lui comanda, interiorizzandolo come dovere mancando al quale si incorre nella sua sanzione.

Questo rapporto duale può non sciogliersi nella ribellione e poi nell’autonomia del figlio, se questo, temendo fortemente di essere punito, soggiace agli imperativi e non sviluppa in proprio le componenti positive della funzione paterna: ragione, disciplina, individualismo, senso del dovere, che aiutano ad arginare la imprevedibilità e distruttività dei lati negativi della funzione materna. L’ipotesi di Fromm è che il mito di Edipo non rappresenti la ribellione del figlio al padre per l’amore incestuoso che porta alla madre, ma la lotta tra due mondi, quello più recente e vittorioso del patriarcato e quello più antico è ormai sconfitto del matriarcato.

In “Edipo Re” non risulta che Edipo si innamori di Giocasta e che ne diventi il marito sembra essere un elemento secondario.
Il solo contenuto di “Edipo Re” che trovi conferma e sviluppo nelle altre due tragedie è quello del conflitto tra padre e figlio.

Un simile conflitto è inconcepibile in un assetto sociale e in un corrispondente sentimento religioso dove l’autorità sia materna e si esplichi attraverso una legislazione egualitaria fondata sui legami di terra e di sangue, dove tutti sono figli, figli di madri e della Madre Terra che accoglie, accetta, nutre, senza distinzioni di merito.

Questo è il mondo che nelle tragedie di Sofocle va scomparendo, nell’estrema lotta contro l’emergente patriarcato, portatore di valori contrapposti: prevalenza del pensiero razionale, volontà di modificare la natura, legislazione paterna che comporta l’obbedienza del figlio come virtù, il disconoscimento del principio di uguaglianza per sostituirlo con quello di gerarchia e col privilegio del figlio preferito(3) (Fromm E. (1979), Grandezza e limiti del pensiero di Freud, cit., pp. 44 e sgg).

Fromm (4) (Fromm E. (1963), Disobedience as a Psychological and Moral Problem, in A Matter of Life, Jonathan Cape. London; tr, it. in La disobbedienza e altri saggi, Mondadori, Milano 1982) , peraltro, è sempre assertore della disobbedienza come inizio di libertà.

Quanto al conflitto tra padre e figlio, esso è dovuto alla società competitiva patricentrica, ed è un dato culturale.
Luigi Zoia(5) (Il gesto di Ettore, Boringheri 2000) racconta la storia della figura paterna evidenziandone i risvolti psicologici per gli individui e per la società, rilevando come sia la differenziazione dei ruoli tra maschio cacciatore e femmina occupata nella raccolta e nell’accudimento dei figli a istituire la civiltà, con la nascita del senso della casa. La curiosità e la voglia di esplorare del maschio sono limitate dal ritorno. L’uomo che fa ritorno al focolare domestico non è più semplicemente maschio, ma padre, capace di responsabilità, di accudimento, e quindi di adottare il figlio.

Tale stato è però costantemente reversibile, e l’uomo rischia spesso la regressione all’orda, quando la capacità progettuale si ferma a vantaggio dell’azione fine a se stessa. La guerra per esempio sarebbe un momento di regressione alle regole dell’orda.

RUOLO DEL PADRE

Ne “Il gesto di Ettore” L. Zoja fa riferimento ad un momento dell’Iliade in cui Ettore va ad abbracciare la moglie Andromaca e il figlio Astianatte sulle mura di Troia prima della battaglia fatale con Achille. Nel momento in cui egli si volge verso il figlio per prenderlo dalle braccia della madre questi scoppia a piangere. Ettore si accorge che a spaventarlo è l’elmo che indossa e lo toglie.

È in questo gesto la novità. Ettore si mostra infatti al figlio come essere fragile, e la corazza assume un valore fortemente simbolico di indumento che mentre protegge chiude, allontana, separa e “mette paura”. Togliersi l’elmo significa simbolicamente aprirsi al figlio ed alla relazione. Il gesto di Ettore elimina le distanze, la separazione e l’eroe che va a morire mostra al figlio il suo volto, che è la sua realtà e costruisce, in collaborazione con la moglie, che porge il figlio al padre, il gesto d’amore che è sempre trino, come anche la teologia cristiana coglie. Non c’è padre senza madre.

Nella modernità l’ordine del padre viene messo in discussione a favore di un ordine orizzontale. La rivoluzione industriale acuisce le difficoltà dell’ordine tradizionale. Il padre cessa di essere agricoltore o artigiano, il cui sapere e i cui prodotti sono visibili e condivisi con la famiglia, per diventare un operaio che porta i soldi a casa (divide, ma non condivide).

Il luogo di lavoro, infatti, non è visibile e, il lavoro, diventato astratto, non è più collegabile direttamente a un oggetto definito. La vicenda narrata da Zoja comprende la vergogna dei figli verso il padre, il suo cessare di essere punto di riferimento e infine la ricerca di punti di riferimento esterni, che forse motiverebbe la proliferazione di credenze magiche e religiose, l’affidarsi ai guru, a personalità politiche forti. Sembra che le madri non porgano i figli ai padri e che i padri non riescano a “togliersi gli elmi” delle battaglie. Al centro della civiltà patriarcale europea, penetrata dappertutto prima con la colonizzazione e poi con la globalizzazione c’è una società che ha adottato come credo il Cristianesimo, e contemporaneamente si è diffusa con la forza, cioè con la guerra, la rapina, la desertificazione della natura, lo sfruttamento e la sottomissione dei popoli più deboli o semplicemente più pacifici. Con la trasgressione planetaria dei comandamenti ‘non uccidere’, ‘non rubare’, ‘non desiderare la roba d’altri’. In questo senso proprio la civiltà europea, che ha sparso la razionalità sulla Terra, parte da un centro profondamente irrazionale. Come il padre individuale, il suo patriarcato oscilla tra legge dell’amore e legge della forza, ed è ben lontano dal trovare una sintesi” secondo la legge del vecchio e nuovo testamento (p. 13).

Attualmente assistiamo a quella che Zoja chiama “la rarefazione del padre” (p. 230), che comprende sia la frequenza con cui le donne allevano da sole i loro figli (regressione verso il maschio), che la rarefazione di riti di passaggio all’età adulta mediate da figure paterne autorevoli.

Quello che sembra venire a mancare è un principio verticale, capace di costituire un modello per la crescita, a vantaggio di un principio orizzontale incapace però di innescare processi fondati sulla restituzione responsabile. L’effetto è quello di retrocedere verso la dimensione del branco, verso l’irresponsabilità. A essere messa in discussione dalla regressione narcisistica è la stessa civiltà.

Dal mio punto di vista viene a mancare quel perno capace, per differenza, di sviluppare il conflitto, a favore di un mix assolutamente mal definibile, dove tutto può essere contemporaneamente vero e falso.

Senza conflitto, parafrasando Zoja, può esserci forse apprendimento, ma non può esserci crescita, viene a mancare infatti il punto di riferimento al quale è possibile ricondursi nel processo di individuazione dell’adolescente, che lo conduca a fare il salto separativo nella vita adulta.

Il gesto del padre è un gesto istituente, e l’essere padre è sempre una scelta adottiva.
C’è una civiltà che tendenzialmente perde l’abilità di assumersi la responsabilità di adottare i propri figli, e che ha perciò bisogno del gesto esemplare di Ettore, che segna l’istituzione della civiltà, capace di fondare insieme “sia il fiume che l’argine” (p. 45).

Riportato al rapporto madre-figlio, si spiega nell’amore che la madre offre al figlio: non se stessa, ma quella che lei ancora non è, perché cambiata dall’esistenza del figlio stesso. Un modo piuttosto complesso per esprimere che l’amore è offrire ad un figlio l’esperienza nuova e diversa ogni giorno di essere genitore per lui.

Il 7 gennaio mi trovo a passare in pieno centro alle 10 di mattina e decido di entrare in libreria. Dopo aver chiesto un libro sull’argomento in questione mi reco alla cassa; lì incappo in un libraio cordiale e colto, si, un libraio vero, non un commesso di libreria, che mi chiede con interesse sincero come mai cercavo questo libro, di cosa parlava e così via. Si interessa molto al tema che gli riassumo; a quel punto parte una di quelle conversazioni che non ti aspetti escano così per caso alle 10 di mattina. Ci mettiamo a parlare del rapporto genitori-figli, di come sia assolutamente imprevedibile e inimmaginabile, finché non ci si trova li, faccia a faccia nei momenti 0 delle nascite, in cui ogni idea preconcetta crolla e si nasce entrambi. Lui, così, mi cita Lacan e la sua teoria filosofica secondo la quale “l’amore è il dono di ciò che non si ha“, che poi si evolve in “l’amore è il dono di ciò che non si è”.

Riportato al rapporto madre-figlio, si spiega nell’amore che la madre offre al figlio: non se stessa, ma quella se stessa che lei ancora non è, perché cambiata dall’esistenza del figlio stesso. Un modo piuttosto complesso per esprimere che l’amore è offrire ai figli l’esperienza nuova e diversa ogni giorno di essere genitore per loro; non basta nutrirli.

Dopo l’interessante chiacchierata con il colto libraio mi sono posto il problema di come Lacan “vedesse” i padri, di cui riporto molto brevemente la sua posizione, peraltro molto interessante e che non avevo finora considerato ma che ho poi, grazie al libraio, provveduto ad approfondire.

Lacan(6)(J. Lacan “Dei nomi del padre” Einaudi 2006) parla, già alla fine degli anni ’60 di “evaporazione del padre” (o sfaldamento del Nome-del-Padre).
Per Lacan il padre deve essere il principio fondativo della famiglia e del corpo sociale. Il padre rappresenta il polo opposto e complementare a quello materno; è colui che separa i figli dalla madre, inducendoli ad uscire dal loro stato iniziale di dipendenza per assumere un atteggiamento più attivo e autonomo verso se stessi e la propria vita. Il modello materno è “fusionale” e induce alla dipendenza, quello paterno invece induce al distacco. La fondamentale funzione paterna è di permettere ai figli di guardare la madre dall’esterno, garantendo il rimodellamento della loro identità fisica e psichica.

La funzione principale del padre non può che essere quella di aiutare i figli ad “essere se stessi”.
Il padre insegna anche il controllo e l’utilizzo positivo della propria aggressività: il figlio che non incontra l’insegnamento paterno, non sa più cosa fare di tutta l’energia che sente dentro di sé, destinata a cambiare il mondo, e rischia di dirigerla non in senso trasformativo, ma distruttivo, contro di sé o contro gli altri).

L’occidente ha ridotto la paternità a pura connotazione naturale, biologica, senza essere anche paternità psicologica, emotiva e simbolica.

La società senza il padre è un’aggregazione di persone incapaci di reggere le ferite della vita, che vedono la perdita come un affronto personale, più che come una prova dell’esistenza, legata anche al destino spirituale dell’individuo.

Relegando in secondo piano la figura e la funzione del padre, anche i concetti dell’etica e dello sviluppo della volontà vengono disattivati; il dovere è considerato quasi una brutta parola; il diritto, dal canto suo, perde il suo lato scomodo, di ciò che dobbiamo agli altri, per diventare esclusivamente acquisitivo: ciò che gli altri devono a noi. La valorizzazione delle “funzioni” paterne potrà generare un essere umano nuovo, che avrà riscoperto il padre, si tratterà necessariamente di un essere umano che sa bene che non avrà nessun amore, piacere, sicurezza, se non sarà capace di perdere, di assumersi la responsabilità, da persona adulta, di quest’amore, dei suoi piaceri, e della sicurezza necessaria al benessere suo e degli altri.

Sarà come riscoprire una cosa semplicissima, che conosciamo da tempo: nostro compito è amare, e provvedere a noi stessi e ai nostri cari, senza risparmiarci. L’amore, il lavoro e la conoscenza sono le fonti della nostra vita: dovrebbero anche governarla.

All’origine, la paternità non era ritenuta “necessaria in natura”, bensì frutto di una costruzione culturale attraverso l’attribuzione di ruoli e doveri verso il bambino che lo rendessero in qualche modo necessario e gli facessero fare le stesse cose che faceva la madre. In pratica il processo era quello di costruire culturalmente il padre imitando la madre.

La maternità e la paternità non sono legate solo alla natura e l’hom biologicus è anche homo psicologycus.
L’affermazione della paternità come ricerca di simmetria e assunzione di caratteristiche materne, quasi un «fingersi madre», trova la sua espressione più significativa nel rituale simbolico della couvade. (7) (Giuditta Lo Russo “Uomini e padri” 1995).

Osservato presso numerose popolazioni della terra questo «strano» costume è stato descritto dagli scrittori dell’antichità classica fino agli antropologi del nostro secolo.
La couvade prevedeva che la donna lavorasse come di consueto e, alcune ore prima del parto si recasse in compagnia di altre donne nella foresta dove dava alla luce il figlio.

Dopo alcune ore si alzava e ritornava al lavoro. Alla nascita del figlio il padre si installava nella sua amaca astenendosi da ogni lavoro, dal mangiare la carne e/o altri cibi, salvo una pappina liquida di farina di manioca. Non fumava, non si lavava e, soprattutto si asteneva dal toccare una qualsiasi arma. Le donne della tribù si prendevano cura di lui e lo nutrivano. Questa situazione si prolungava per settimane. L’area della espansione del rituale della couvade andava dal Sud America (specialmente nel Brasile) alla Groenlandia, all’arcipelago malese, ai Caraibi, all’India. È possibile dimostrare l’antica diffusione della couvade anche in Europa. Ne sono state rinvenute tracce e sopravvivenze in Corsica, in Albania, in Irlanda ed anche nella Francia continentale.

Sulla base di documenti dell’antichità greca e romana scrive Bachofen (1): “Nel paese dei Tibareni le donne, quando partoriscono si prendono cura degli uomini, come afferma Ninfodoro nelle Consuetudini. Il resoconto sui Corsi fattoci da Diodoro rivela una singolare coincidenza con queste considerazioni. […]. ‘Quando la donna sta per partorire, nessuno si prende cura di lei durante il parto; il marito invece, messosi a letto come se fosse malato, fa finta di partorire nei giorni previsti e di essere in preda alle doglie’. A proposito degli Iberi settentrionali Strabone scrive: ‘Queste donne, del resto, svolgono i lavori agricoli. Subito dopo che hanno partorito le si vede servire i propri mariti, che hanno preso posto sul letto’.

La couvade è indicata dunque come «uno degli atti rituali creativi» dell’istituto familiare in quanto la sua funzione è quella di creare il padre.
Dunque il problema era e resta tuttora quello di costruire socialmente il padre imitando la madre e creare un forte legame tra padre e bambino, fatto di contatto epidermico, di odori, in pratica un secondo imprinting.

Proprio l’importante rituale della couvade rimanda ad una fase cruciale, e poco studiata nella storia della paternità, quella in cui la paternità biologica era sconosciuta, non essendo ancora nota, cioè scoperta la proprietà generativa dello sperma.

Tutto quanto descritto finora aveva l’obiettivo di introdurre una tematica che ritengo sia di fondamentale importanza per “quanto possa fare” un padre per i figli, soprattutto in presenza di una condizione “di distanza”.

PADRE “A DISTANZA”

Fin dal protomito ed in tutte le successive trasformazioni dei comportamenti umani c’è una unica condizione che consente di definire non solo il ruolo, ma addirittura la “presenza” del padre, ed è che sia appunto sempre e solo la madre a poter “legittimare” tutto ciò. Quando questo processo non accade e, con l’autonomizzazione sempre maggiore della donna ciò avviene sempre più spesso, la relazione padre-figlio non si realizza o si realizza in maniera “malsana” in quanto viene a mancare la parte relativa alla “formazione di una coscienza critica”. Compito peraltro difficilissimo, ma fondamentale, in quanto strettamente legato alla sopravvivenza dell’organizzazione umana nelle grandi società senza padre. Se l’assenza del padre nella società fondata sulla divisione del lavoro deve essere accettata e compensata dalla consapevolezza critica, l’infanzia senza modello paterno e senza la vicinanza materna non può che compromettere il destino individuale. Nel quadro di una società che tende ad una organizzazione orizzontale, che definirei “fraterna”, la struttura famigliare dovrà certamente conquistarsi un nuovo ordine, una nuova stabilità, un esempio di equilibrio migliore, una parità vera tra uomo e donna.

La realtà sociale ci trova a dover affrontare la problematica su riferita relativa alla “legittimazione” della figura del padre nella “mente” della madre prima ancora che in quella del figlio.
Se queste problematiche ci sono ed in maniera molto importante in condizioni famigliari “cosiddette normali”, proviamo a pensare agli elementi di complessità che intervengono all’interno di situazioni sociali con cui sempre più di frequente ci si trova ad avere a che fare, ovvero le “aggrovigliate” situazioni conflittuali tra i genitori. E’ noto infatti che eventi quali la separazione ed il divorzio non possono essere considerati eventi “puntiformi” ma “processi” che comportano una trasformazione delle relazioni familiari sul piano coniugale, su quello genitoriale e su quello riguardante l’ambiente esterno, la famiglia d’origine e gli amici.

Per entrare nel complesso mondo di questi cambiamenti è imprescindibile la necessità di partire da un’analisi della conflittualità genitoriale, dalle aggrovigliate motivazioni che la sottendono, come base su cui si strutturano quegli aspetti patologici che possono esitare in quella che viene definita la Sindrome da alienazione parentale.

Una delle evoluzioni più frequenti delle famiglie separate è la creazione di una famiglia monogenitoriale composta in genere da madre e figlio/i, in quanto la madre solitamente è il genitore affidatario. In un numero non infrequente di casi, il genitore non affidatario (il padre, nel 90% circa dei casi), sparisce quasi completamente.

Il principale compito che la famiglia separata si trova infatti ad affrontare è la riorganizzazione delle relazioni familiari a livello coniugale e genitoriale. Per poter gestire adeguatamente il conflitto emergente dalla separazione in maniera cooperativa, a livello coniugale la coppia deve elaborare in primo luogo il fallimento del proprio legame, attuando il cosiddetto “divorzio psichico”. Contemporaneamente a livello genitoriale è necessario che gli ex coniugi continuino a svolgere i ruoli di padre e madre e, soprattutto, a riconoscersi come tali ed instaurare un rapporto di collaborazione e cooperazione per tutti gli aspetti che riguardano l’esercizio della genitorialità. Purtroppo, troppo spesso però questo non accade e la battaglia esce e si protrae fuori dalle porte del Tribunale innescando nel bambino una suddivisione dei propri genitori in un “genitore buono” e in un “genitore cattivo” (9)(Patrocchi, 2005 Analisi della conflittualità nella separazione genitoriale: dal mobbing alla sindrome di alienazione parentale. www.aipg.com).

CONFLITTUALITA’ GENITORIALI

La conflittualità che molto spesso accompagna le separazioni coniugali rende ciechi i genitori dei bisogni effettivi ed affettivi dei propri figli: la separazione dei genitori significa per il bambino avere un padre ed una madre che non si amano più innescando in lui conflitti e domande sul se sia giusto continuare ad amare entrambi dal momento che loro non si amano più. Molte volte i genitori, consciamente o inconsciamente, quando si contendono l’affidamento del bambino lo “chiamano” ad effettuare una scelta tra di loro, attivando odio e rifiuto.

E’ chiaro che questa sollecitazione alla scelta aumenta il disagio del bambino in un contesto in cui da una parte ci sono i genitori che si trovano in un momento critico in cui prevalgono sensi di inadeguatezza e bisogni di trovare all’esterno di sé conferme della loro validità come persone. Cercano perciò questa conferma nel ruolo genitoriale; il figlio da parte sua si trova in una situazione concreta di perdita di riferimenti e di rapporti che non ha voluto e che spesso nemmeno si aspettava e quindi in una situazione di lutto. Quando, e purtroppo sin troppo spesso, i genitori non riescono a superare la crisi personale innescata dalla separazione e quindi trovare dentro di sé motivi di autostima, sospinti anche da motivazioni di conflittualità latente, hanno bisogno di definire il coniuge negativamente e quindi anche di definirlo “inidoneo” nel ruolo genitoriale. Da qui i sempre più frequenti interventi svalutativi verso l’altro genitore e la richiesta, formulata in modo più o meno esplicito, che anche il figlio contribuisca a tale definizione scegliendo lui come unico genitore.

La persistenza della conflittualità per molto tempo dopo la separazione costituisce la principale fonte di stress non solo per la coppia ma anche e soprattutto per i figli che continuano ad essere coinvolti in dinamiche relazionali e genitoriali disfunzionali. Il processo di separazione si configura diversamente in relazione al ciclo di vita in cui avviene, comportando, quindi, percorsi riorganizzativi articolati in rapporto a variabili diverse, quali: storia intergenerazionale dei protagonisti, età dei figli che ne risultano coinvolti, risorse e potenzialità di cui dispone ogni singolo componente e la famiglia nel suo insieme e agli specifici quadri relazionali, che costituiscono lo scenario su cui vengono a organizzarsi le problematiche familiari in quel preciso momento del ciclo vitale sia individuale che familiare.

Nelle situazioni conflittuali quando il figlio o i figli sono al centro delle dinamiche relazionali disfunzionali, quali la coalizione e la triangolazione, tra i genitori con le rispettive famiglie di origine.

Il minore della famiglia separata occupa un ruolo particolare in quanto rappresenta da un lato il simbolo dell’unione indissolubile tra le due famiglie e dall’altro l’elemento scatenante del conflitto (anche se a volte con la funzione di coprire ciò che sottende la conflittualità vera e propria).

Ci sono varie possibiltà: in taluni casi, il padre – instaurando una nuova relazione – si allontana dai figli nell’ipotesi di “rifarsi una vita” con la nuova compagna; in altri casi si apre il sipario di quella che si definisce “sindrome di alienazione genitoriale” (10)(Gulotta, 1998 La sindrome di alienazione genitoriale: definizione e descrizione. In Pianeta Infanzia. Firenze: Istituto degli Innocenti), per cui il genitore affidatario mette in atto progressivamente una serie di comportamenti volti a svalutare e denigrare l’altro genitore. In questi casi, se il minore oppone una strenua resistenza agli incontri con il padre (o con il genitore alienato), vi è di fatto una colpevole collusione del sistema che, purtroppo spesso, non è in grado di elaborare un adeguato processo di recupero della relazione genitoriale distrutta dal conflitto o da una vera incompatibilità. In molti altri casi gli ostacoli posti dal genitore affidatario agli incontri tra l’altro genitore ed i figli sono talmente insormontabili, o di difficile gestione, che si verifica una perdita di contatti significativi, che può diventare totale o, come più spesso avviene, che porta a modalità di incontro traumatiche e traumatizzanti, frutto di stress per i minori e l’adulto coinvolto.

Nei pochi incontri che hanno con i figli non riescono a costruire uno spazio di dialogo adeguato: padre e figli non riescono a rendere costruttiva la relazione affettiva, rendendo questi incontri artificiali. Nei casi di alienazione genitoriale non vi è alcuna possibilità di collaborazione in quanto gli ex coniugi si danneggiano l’un l’altro e soprattutto danneggiano il figlio attraverso un conflitto aspro che si manifesta con squalifiche e denigrazioni reciproche, battaglie giudiziarie interminabili. La rabbia è così intensa che nessuno dei due può accettare i diritti dell’altro neanche come genitore: l’ex coniuge è semplicemente un nemico da eliminare dalla propria vita e anche da quella dei figli.

In un sistema familiare è possibile distinguere tre principali tipi di triade rigida (10) (Minuchin S, Famiglie e terapia della famiglia, Astrolabio 1976):

  • La coalizione. È definita come l’unione tra due persone a danno di un terzo. Uno dei genitori si allea con un figlio in una coalizione rigidamente definita contro l’altro genitore. Nel caso delle famiglie separate possiamo osservare, frequentemente, una coalizione madre – figlio che esclude il padre. Sono i casi in cui i figli arrivano a rifiutare ogni forma di dialogo e anche di incontro con l’altro genitore.
  • La triangolazione. È definita come una coalizione instabile in cui ciascun genitore desidera che il figlio parteggi per lui contro l’altro; quando il figlio si schiera con uno dei genitori, l’altro definisce la sua presa di posizione come un tradimento. Se c’è una triangolazione, il figlio rimane come paralizzato in quanto cerca di dare ragione e affetto sia all’uno che all’altro.
  • La deviazione. Due persone in conflitto tra loro spostano il conflitto su un terzo. Nelle famiglie separate in cui il conflitto non è esplicitato per cui non è possibile negoziarlo e risolverlo, il figlio può arrivare ad agire comportamenti devianti o a presentare manifestazioni sintomatiche in quanto entrambi i genitori sono rigidi sul loro modello educativo.

Gardner definisce “la sindrome da alienazione parentale” un disturbo che insorge essenzialmente in presenza di controversie per l’affidamento dei figli. La sua principale manifestazione e’ la campagna di denigrazione da parte del bambino nei confronti di un genitore, una campagna che è assolutamente ingiustificata. E’ il frutto della somma dell’indottrinamento da parte di uno dei genitore che programma e il contributo personale del figlio alla denigrazione del genitore che costituisce l’obiettivo di questa denigrazione. In presenza di abusi veri o di abbandono da parte del genitore, tale animosità può essere giustificata e in questo caso non e’ possibile utilizzare la PAS come spiegazione dell’animosità del bambino”(11) (Dalla disputa all’avversione – Riflessioni critiche in ambito forense e clinico sulla Sindrome di Alienazione Genitoriale (PAS) di R. A. Gardner. Associazione Italiana di Psicologia Giuridica, in www.aipgitalia.org Giorgi, 2001). L’incremento delle dispute sull’affidamento di minori sottende la sostituzione del “principio della tenera età” al “principio dell’interesse prevalente del bambino”; con tale inversione di rotta fu data istruzione ai Tribunali di ignorare il sesso nel prendere in considerazione l’affidamento. Fino ad allora, infatti, vigeva il presupposto che le madri fossero, in virtù del fatto di essere donne, superiori agli uomini come educatrici dei figli, e di valutare solamente le capacità genitoriali. Di conseguenza sono dunque proliferate le cause per affido avendo i padri una maggiore opportunità di divenire affidatari. A seguito di questo proliferare di cause di affidamento si osservava nei figli un aumento di un disturbo in soggetti in età evolutiva che precedentemente era raramente riscontrata; tale disturbo accoglierebbe in sé sia la programmazione del minore da parte di un genitore contro l’altro genitore ex coniuge ma anche i contributi attivi dello stesso bambino a sostegno del genitore alienante. Secondo Gardner (12) (Introduzione e commenti sulla PAS. In “La sindrome da Alienazione Parentale”. Seconda Edizione Cresskill, NJ: Creative Therapeutics, Inc 1998) quindi la PAS non può essere solo sinonimo di lavaggio del cervello (programmazione) in quanto l’elemento chiave appare il personale contributo del bambino alla vittimizzazione del genitore “bersaglio”. L’impatto della sindrome comunque, non è mai benigno perché coinvolge manipolazione, rabbia, ostilità e malevolenza, a prescindere dal fatto che il genitore programmante ne sia più o meno consapevole. Ciò che si ottiene sui figli è sempre un grave lutto di una parte di sé. Alcuni figli continuano a sperare nella riunione dei genitori e in questi casi di alienazione si assommerà la vergogna per aver volutamente perso un genitore. Quando i ragazzi alienati ricostruiscono l’accaduto e lo disvelano a se stessi finiscono per escludere anche il genitore programmante, rischiando una seconda perdita. Il genitore bersaglio infatti, in principio rimane come disarmato di fronte alla volontà di allontanamento dimostratagli dai figli e nella sua posizione di debolezza, passa dalla rabbia, alla protesta, alla confusione e alla depressione. Progressivamente molti genitori bersaglio finiscono per desistere nei loro tentativi di vedere i figli e di trascorrere un po’ di tempo con loro per riuscire a mantenere, o addirittura a sviluppare, una relazione d’intimità, pesando in seguito nell’eventuale processo di riavvicinamento voluto dai figli ed aumentando le difficoltà di rapporto legate all’estraneità venutasi a creare. I ragazzi alienati che testimoniano contro il genitore bersaglio si ritroveranno a dover lottare in futuro con forti sensi di colpa, cui si affiancheranno le paure di abbandono e della perdita dell’amore del genitore programmante. Spesso i figli escono da questa ambivalenza con strategie autodistruttive, autocolpevolizzanti e autolesioniste. Sembra inoltre che figli alienati tendano a diventare genitori programmanti. Dal momento che durante la programmazione questi ragazzi possono sviluppare potenti sentimenti di ostilità e hanno carta bianca nel darne libero sfogo, si presentano come soggetti che si introducono volontariamente nei conflitti con modalità antagonistiche, possono essere irrispettosi, non collaboranti, ostili, maleducati, ricattatori e ricattabili, vanno male a scuola, fanno della manipolazione uno strumento relazionale. Non è raro che in questi casi aumenti anche l’ostilità manifesta tra fratelli. Questi ragazzi presentano quasi sempre disturbi dell’identità, spesso della sfera sessuale e sono più vulnerabili alle perdile ed ai cambiamenti, regrediscono a livello morale e continuano a operare anche oltre l’adolescenza una netta dicotomia tra “bene” e “male”. Le regressioni possono essere presenti anche in altri ambiti di sviluppo in quanto il processo psicologico in atto è molto costoso, quindi possono presentare un’ampia confusione cognitiva, una dissonanza ingestibile tra realtà e programma, e la creazione di genitori immaginari a sostituzione del genitore perduto.

Sono tuttavia solo i figli più dipendenti e quindi i meno autonomi a essere vulnerabili alla programmazione, così come quelli con bassa autostima, quelli che si sentono colpevoli per qualcosa che pensano di aver fatto, quelli che già avevano problemi emotivi o psicologici al momento della separazione. A complicare il tutto c’è l’effettivo abbandono da parte del genitore bersaglio dei tentativi di visita ai figli, il suo allontanamento crea una situazione di assenza di confronto con la realtà, se infatti viene a mancare il contatto con l’altro genitore è più facile cadere vittime della programmazione perché non può esserci esame diretto di realtà e confronto tra programma e realtà.

La maggior parte dei figli alienati, comunque, ha avuto una normale relazione col genitore alienato prima della separazione, e in seguito ha completamente assorbito e fatto proprio il punto di vista del genitore “preferito” nei confronti del genitore alienato. Questi sono solitamente bambini che hanno un età compresa tra i 9 e i 15 anni al momento della separazione, e che si oppongono con forza e veemenza al genitore alienato senza apparenti espressioni di colpa o di ambivalenza. Essi elencano le proprie critiche e la propria avversione in presenza di entrambi i genitori con modalità ripetitive, sovente utilizzando le stesse parole utilizzate dal genitore preferito per descrivere le trasgressioni e i difetti del genitore alienato. Il loro linguaggio è quasi sempre pomposo e la scelta dei termini molto ricercata quasi da adulti.

Visto quanto riportato credo che la possibilità di intervento da parte del padre, genitore più frequentemente alienato ed escluso dalla relazione, sia a dir poco problematica.
Intanto, come abbiamo visto, esiste il problema che definirei storico- culturale e forse anche genetico che mi porta ad affermare che “da una donna dipendiamo per nascere, da una donna dipendiamo per diventare padri”. Questa situazione viene rafforzata e “deviata” dalla conflittualità che spesso c’è tra i genitori dopo la separazione che fa si che il figlio/figli diventino chiaramente “ostaggi psicologici” del genitore affidatario.

I possibili supporti per far si che queste situazioni trovino una soluzione positiva e non determinino possibili negative ripercussioni sui figli bisognerebbe che tutti gli operatori che intervengono nella programmazione della gestione dei figli di coppie separate prendessero piena e profonda coscienza dell’esistenza di questa problematica e operassero in maniera multidisciplinare al fine di determinare interventi adeguati. Credo inoltre che non deve trattarsi di “protocolli di intervento”, bensì di valutazioni che devono essere fatte volta per volta, tenendo conto sempre della storia e della struttura personologica della coppia genitoriale e dei figli.

La mente umana è plasmata dalle interazioni precoci, principalmente da quelle con i genitori, per fortuna non esclusivamente.